La vigilia dell’episodio decisivo è bellissima ma spesso sfinente: lo rende unico, storico, banalmente leggendario. Qualcuno ha paragonato questa di Valencia a quella della finale di un mondiale di calcio, per estensione patriottica un’Italia-Spagna mai disputata, e in fondo le somiglia. Diciamo che è la finale del mondiale del calcio. Certo, giocarla in casa loro e senza il portiere non è simpatico.
Una cosa è certa: da Sepang a oggi ci è stata raccontata una favola totalmente diversa da quella che conoscevamo, abbiamo scoperto un’altra verità. La verità. Noi che non frequentiamo i circuiti motogp pensavamo – così ce l’avevano passata – che Rossi e Marquez fossero amici e si rispettassero; che si somigliassero; che l’avversario comune fosse Lorenzo; che uno si sentisse l’erede dell’altro e insomma che dello spagnolo Vale fosse addirittura l’idolo.
Così recitava infatti la didascalia di una foto scattata ad Assen: “Marquez si complimenta col suo idolo Rossi”. Ci piaceva, ci bastava, ci faceva pensare a un futuro comunque intrigante anche dopo Valentino.
Quel calcetto ha fatto emergere il conflitto generazionale e di interessi personali, l’invidia. Come scrive il filosofo e psicologo Umberto Galimberti, “più che un vizio, l’invidia è un meccanismo di difesa, un tentativo disperato di salvaguardare la propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri. Un confronto che l’invidioso da un lato non sa reggere e dall’altro non può evitare, perché sul confronto si regge l’intera impalcatura sociale”.
Io che non so invidiare e sono italiano, sto con Vale e la sua storia irripetibile.