L’Heysel e i disgraziati della curva dopo

In questi trent’anni sono serviti anche i cori e gli striscioni offensivi, orribili, irritanti esposti in alcune curve a tenere vivo il ricordo dell’Heysel, dei 39 morti, di un “Olocausto”, come titolò Italo Cucci per il suo, il nostro Guerin sportivo.

Ogni volta che un disgraziato che quel giorno non era nato o se c’era non arriva all’asse del pane si è permesso di aggredire la memoria, qualcuno ha avuto modo di ripensare a quel giorno e al dolore insopportabile di chi il 29 maggio dell’85 perse familiari, parenti, amici.

Non sarò così ipocrita da appropriarmi dell’altrui sofferenza: a BruxelStrage Heysel 1985les ero in tribuna stampa, primo servizio da inviato, vidi quel che si poté vedere e, come tutti, seguii gli ordini che arrivavano confusamente da ogni parte. Non provai dolore, ma sgomento, stordimento, incredulità.

Maurizio Crosetti ha descritto magnificamente quei momenti, l’ha fatto ieri su Repubblica: “Poi, di colpo, verso le 19.20 la curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un mare assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da sinistra verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si spostavano compatti. «Guarda, attaccano!», disse qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi (la maggioranza stava nella curva opposta: chi era capitato lì lo aveva fatto comperando da sé i biglietti, si può morire anche per distrazione) presero a indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò spazio e salvezza verso il prato, da dove però i gendarmi belgi provavano a respingere le persone con i manganelli. Finché il muretto divisorio cedette, e quasi tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi calpestati, schiacciati, soffocati. Dalla tribuna si capiva e non si capiva. «Ci sono dei morti», disse una voce, e subito ci precipitammo giù dalle scale verso l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque, otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usate come barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro, soffiando nei fischietti e roteando bastoni. C’erano infermieri, pochi, e medici, ancora meno. C’era morte dappertutto”.

I cori e gli striscioni continueranno a insudiciare i nostri stadi: marcheranno come sempre la differenza tra chi non sa stare al mondo e chi è ancora capace di dare un senso alle parole “vita, morte, passione, dolore, rispetto, sport”.