Il calcio e il male del campione

Poche cose possono risultare più discutibili e impopolari, oggi, della conclusione di una ricerca come quella condotta dal sindacato mondiale dei calciatori secondo la quale “uno su tre è ansioso o addirittura depresso” – la ricerca ha coinvolto 826 atleti, 607 dei quali in attività, di undici Paesi.

L’ansia è una cosa, la depressione un’altra, la prima è uno dei sintomi della seconda. Sono entrambe cose serie, serissime. La depressione di più. E non può essere trattata con troppa disinvoltura, come nel caso in questione. “Si ragiona sempre e solo sugli stipendi” dice Damiano Tommasi, presidente dell’Aic, “però dietro ai personaggi, e oggi lo si diventa troppo in fretta, ci sono le persone… Tre anni fa un nazionale molto importante mi disse che un calciatore non ha diritto neanche a essere triste”.

Il diritto alla tristezza, alla delusione, al dolore non si può negare a nessuno. Ma la depressione (alcune parole hanno un valore più alto di altre) va trattata con i guanti. Italo Cucci, che sulla depressione del figlio ha scritto un libro proprio insieme al figlio, spiega: “A volte, anche a partita in corso, appena un giocatore cade, si lamenta, si agita, o esce con le sue gambe o in barella, sento sparare diagnosi strepitosamente precise, anche se sono di fantasia. Dei muscoli, delle ossa tanti dicono tutto, spesso ne sanno più di ortopedia che di sintassi. Poi, con la stessa disinvoltura, di un male grave come un cancro dicono che è incurabile, commettendo un reato linguistico e psicologico. Oppure, per giustificare il momento difficile di un calciatore, dicono che è caduto in depressione”.

Anni fa, un campione accusò una grave forma di depressione guarita – beato lui, miracolato – in sei mesi. In fondo, esser depressi può anche valere uno stato d’animo quotidiano: basta una cartella di Equitalia, un amore finito, un’occasionale traccia d’impotenza, una panchina forzata, un “fuori rosa” dovuto più al capriccio del mister che ad altro, ed ecco la diagnosi ridicola e spietata, il Nostro è depresso. Per chi ha avuto a che fare con la depressione vera tutto questo non è solo motivo di disappunto: scatta una sorta di rabbiosa vendetta mentale, come dire “vorrei che tu provassi cos’è davvero la depressione”; ma poi si riflette e si diagnostica per l’interessato un male assai diffuso, l’ignoranza, che nel mondo del dolore s’allarga a diventare iperbole, come dire un titolo da prima pagina.

“Lo sport” conclude Cucci “produce depressione in una forma particolare che non ha alcuna somiglianza con la schizofrenia; una patologia specifica che può avere origine anche da problemi muscolari, da stanchezza fisica, ma soprattutto un mal d’anima prodotto dall’insuccesso, una carriera che finisce, una squalifica pesante, una sconfitta dolorosa perché ritenuta ingiusta, tutti elementi portatori di una paura del futuro che riguarda gli uomini di sport e anche quelli dello spettacolo; uomini vuol dire persone ma le statistiche dicono i maschi più sofferenti delle femmine. Al primo accenno di questo tipo di depressione il medico sociale deve indirizzare l’atleta allo psicologo o anche allo psichiatra, l’unico che può indicare i farmaci opportuni sottraendo il paziente al rischio di inghiottire prodotti nati nello spogliatoio o nella farmacopea truccata”.

Ma prim’ancora può emettere una diagnosi serena un buon tecnico, un allenatore che non s’atteggi a mago ma abbia un’adeguata conoscenza dei suoi “ragazzi”. Ci sono poi – e le cronache gossipare lo dicono – anche i fenomeni che curano la depressione al night, nelle balere, nei circoli chiusi, con un po’ di coca, fumo e tanto alcool. Bacco e tabacco non sono antidepressivi, Venere sì. Provare per credere.

Tra i calciatori ci sono certamente i depressi: è quell’uno su tre che disturba.