Stavolta non è contestabile, e dunque è uno scudetto più vero, più sincero.
Uno scudetto frutto anche di un paio di scherzi del destino – unico il protagonista, Conte: se non avesse scelto di restare controvoglia la prima volta, era un lunedì di maggio, l’allenatore della Juve sarebbe stato Mihajlovic, e se non avesse deciso di andarsene dopo il secondo giorno di ritiro non sarebbe arrivato Allegri (Sinisa aveva rinnovato con la Samp), il tecnico al quale tutti hanno attribuito i meriti di questo successo, il quarto di fila.
Fortuna e buonsenso (di Max), pazienza (sempre di Max) e costanza, ecco la formula; l’ho detto e lo ripeto: da Conte in avanti, la sensazione che si prova vedendo i calciatori della Juve e quelli delle altre squadre è di assistere a due tipi di impegno: gli juventini lavorano, gli altri giocano. O sembra che giochino.
Un lavoro ben fatto, certo. Allegri ha vinto anche contro le conclusioni del suo predecessore (squadra spremuta, da ricostruire per cinque undicesimi) e senza disporre di alcuni dei valori tecnico-tattici più alti: gli sono mancati a lungo Barzagli, Pirlo, Asamoah, il miglior Vidal e infine Pogba – uno degli acquisti, Romulo, ha frequentato esclusivamente l’infermeria. Ha però saputo investire sui migliori Tevez, Bonucci e Marchisio di sempre, oltre che sulla crescita di Morata e Pereyra. Evra ha fatto il suo, Buffon qualcosa più del suo.
Non c’è mai stata partita, rarissimi i favori arbitrali, nettissima la superiorità dimostrata. Ha stravinto una Juve a parte. Ha stravinto e basta.