Pensai – un’estate fa – che sarebbe stato l’anno buono di qualcun altro. Della Roma, ad esempio, nonostante il grande delegittimato dell’estate Rudi Garcia.
Pensai che Dybala, Mandzukic e Khedira non avrebbero potuto sostituire subito nei compiti, nei ruoli e nel rendimento Pirlo, Tevez e Vidal.
Pensai che quattro di fila sarebbero bastati.
E pensai – dopo i 12 punti nelle prime dieci partite – che per una volta i precedenti avrebbero avuto un peso: mai nessuno era riuscito a sopravvivere a quei risultati e, addirittura, ad arrivare al titolo.
Pensai che ad Agnelli sarebbero girate, e per un po’ gli sono girate.
Pensai che l’infinito Buffon, Barzagli e Chiellini avrebbero mollato un po’.
Non ho mai pensato che Allegri fosse scarso.
Poi, una, due, dieci, venti, ventiquattro vittorie (su 25) e il miracolo del lavoro fatto bene e della stabilità societaria si è nuovamente compiuto.
La Juve ha vinto il quinto titolo consecutivo in 25 giornate: è riuscita a fare a meno di un terzo del campionato – qualcosa di pazzesco che dovrebbe far riflettere innanzitutto una concorrenza sempre più confusa e spiazzata – esplicito il significato simbolico di questo successo.
Un anno fa Sergio Berti, storico agente di calciatori e tecnici (Vieri, Mihajlovic), mi disse che “per come stanno le cose, per la struttura che si è data, la Juve vincerà i prossimi venti scudetti”.
Ne mancano diciannove, ma dopo quello appena conquistato – e con un Dybala e un Pogba compiuti e la progettualità sviluppata – sospetto che potrebbe avere ragione.