Sono bastati i primi dieci minuti per capire che ci sarebbe stata partita – dissolti i tanti timori della vigilia, le paure, le inferiorità, annullate le distanze: la Juve sembrava il Real e l’approdo alle semifinali di Champions la cosa più naturale e giusta.
Non l’ho fatto prima, rimedio ora: nella distribuzione dei meriti – a prescindere da quel che accadrà al Bernabeu: il gol di Ronaldo è pesante – ho trascurato la società, Agnelli, Marotta, Paratici.
L’affermazione di Andrea, che dall’apertura dello Juventus Stadium in poi è cresciuto in maniera verticale riuscendo a smarcarsi perfino da Giraudo (al quale si deve il progetto più ambizioso, l’impianto), ha vissuto il momento chiave con l’addio di Conte: in quel momento la società ha prevalso su tutto e tutti, ed era il principale obiettivo che il giovane presidente voleva centrare.
Con Allegri, altro passaggio decisivo, si è compiuto un miracolo di sintonie e anche i giocatori si sono presi le loro soddisfazioni di ruolo.
Marotta, che conosco da un quarto di secolo, ha trovato da anni in Paratici (parte tecnica) il completamento, la compiutezza: si è così composta una nuova Triade, per personalità assai distante da quella che l’ha preceduta ma ugualmente efficace, ideale per un calcio di minori concorrenze.
Nei giorni scorsi ne parlavo con un operatore tra i più esperti, uno che ha giocato in Serie A, fatto il dirigente e da anni figura tra gli agenti più rispettati del calcio italiano. Ebbene, la sua conclusione è stata questa: “La Juve è l’unica società strutturata della Serie A, è società. Questi vincono lo scudetto anche nei prossimi 50 anni”.
Gli juventini capiranno: non possiamo augurarcelo.