Ibra, e sai cosa vinci (e quanto perdi)

In fondo vincere lo scudetto è la cosa più facile del mondo: si spendono tra i venti e i trenta milioni per il cartellino (oggi meno), altri 25 lordi l’anno per lo stipendio e si prende Ibrahimovic: dodici volte su quattordici (o 10 su 12?) il titolo è già in tasca. Malmoe, Ajax, Juve, Inter, Barcellona, Milan e Psg l’hanno fatto con gioia, ed è per questo che Berlusconi ha pensato di accorciare i tempi della risalita imboccando la strada dello svedese – le difficoltà non mancano.

Perché inseguire sempre un’intuizione presidenziale?, perché strapagare allenatori che quando va bene durano lo spazio di un campionato?, perché perder tempo e credibilità con campagne acquisti fallimentari? Si ingaggia Ibra e il dente è tolto, e poco importa se in una sola stagione lui si porta via la metà dei ricavi di una Champions vinta.

A ottobre Zlatan compirà 34 anni, ma è ancora da gara. Le esperienze italiane gli hanno permesso di affermarsi anche come cannoniere. Ricordo che nel settembre 2004 – era appena arrivato alla Juve – durante una cena a quattro – con noi c’erano Raiola e un’avvocatessa brasiliana – rivolgendosi al suo agente disse scherzando ma non troppo: “Se fossi anche capace di segnare non avrei bisogno di te per far soldi”.

Considero Ibra il più grande centravanti degli ultimi quindici anni e la sua presenza nella Ligue-1 un autentico spreco: mi piacerebbe rivederlo in Italia, applaudire le sue giocate strambe, ascoltare il racconto dei suoi scazzi con compagni e avversari. Ibra è unico e irripetibile: entra in campo e chiede al suo marcatore se abbia intenzione di giocare pulito o sporco (per lui non fa alcuna differenza), guadagna un milione al mese e si fa tatuare sul corpo il messaggio della campagna contro la fame nel mondo: vero, non c’è contraddizione, però almeno apparentemente stride un po’.