Il Barça aveva più tifosi da noi che in Catalogna

Sabato la finale, ieri un dopo-partita tra i più accesi e maleducati, soprattutto grazie ai social. Ringalluzzito dalle tante Champions perse dalla Juve, sei su otto, il partito degli “anti” si è scatenato armando tifosi di ogni genere, categoria, squadra, estrazione, grado. Come sempre, non sono mancati i parlamentari; in un caso s’è trattato di un derby del Pd: rispondendo al tweet di Matteo Orfini (“Caro @StefanoEsposito, apprezzo molto il tuo tweet su Gramazio ma ora vorrei un commento su Suarez…”) il senatore ha infatti spiegato che “godere per la sconfitta della Juventus è come essere impotenti ed esultare se qualcuno fa godere la tua donna”, similitudine che la scrittrice Silvia Ballestra ha peraltro etichettato come sessista.

Premesso che lo slogan della Juve era e resta il bonipertiano “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” e che “uno contro tutti” è il manifesto degli Agnelli, in particolare dopo Calciopoli, penso che il botta e risposta tra juventini e anti-juventini abbia toccato punte di volgarità mai raggiunte in precedenza sporcando in qualche modo il valore dell’impresa della squadra di Allegri che a Berlino ha avuto la forza di tenere vivo fino alla fine il confronto con un avversario decisamente superiore.

Quanto vale un secondo posto, oggi? Il secondo è ancora il primo degli ultimi, come sosteneva Enzo Ferrari? E, innanzitutto, dove arriveremo se in un ambiente che sembra nutrirsi soltanto di offese, discriminazioni territoriali e sfottò anche un’impresa sportiva come quella della Juve diventa il pretesto per altri scontri non solo verbali?

Dice che è così che va il mondo; che dopo Istanbul i milanisti furono presi per i fondelli come non mai; che i napoletani non possono dimenticare certi cori; che gli interisti sono storicamente contro e insomma la soddisfazione di aver portato una squadra alla finale di Berlino e di aver fatto bella figura non può appartenere al calcio italiano, ma a un quarto del Paese.