Ecco il calcio che ci è rimasto

Quei calci in faccia hanno colpito tutti, non soltanto il tifoso del Palermo che da terra tentava in qualche modo di proteggersi. Immagini di una violenza di strada cruda, bestiale, inaccettabile, così simili a quelle di fine novembre, Atlètico Madrid-Deportivo la partita-pretesto, un morto, tale Taboada, 42enne ultrà del gruppo Los Suaves.

Certo, hanno riportato immediatamente alla mente anche gli scontri del 3 maggio di due anni fa a Roma, prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, l’assassinio di Ciro Esposito: in quell’occasione entrò in scena addirittura la pistola.

La strada, lo sappiamo, ha sostituito lo stadio per battaglie non sempre annunciate in cui sono protagonisti i soggetti colpiti da daspo; dentro, ci si limita a far rumore, molto rumore, con petardi e altro, o a inoffensive proteste in maschera.

Due le cose che servirebbero: in primis l’applicazione delle leggi, la certezza della pena, e subito dopo, o insieme, lo spettacolo vero, il calcio ben fatto, il ritorno al piacere del gioco e dell’esserci. Stiamo diventando isterici dentro e fuori dal campo: lo stadio è diventato un luogo da frequentare solo in occasione degli eventi, che sono sempre meno. Il calcio, soprattutto il nostro, ha perso la sua potenza sociale anche da quando ha acquisito una potenza social.

Pericoloso, poi, è questo evidente (per alcuni solo apparente) innamoramento nei confronti di favole come quella del Leicester, perché non sono favole nostre: appartengono ad altri e finiscono sulle prime pagine dei giornali italiani per esclusione. Noi abbiamo smesso da tempo di scriverle e viverle, le favole.