A inizio settembre mi disse con un mezzo sorriso: “Sarò bravo se arriverò a ottobre, bravissimo a novembre, fenomeno a dicembre”. Zenga aveva capito fin dai giorni del ritiro che qualcosa – troppo, tutto – tra lui e la tifoseria della Samp non andava, roba di pelle; l’uscita dall’Europa League e le tante contraddizioni sull’arrivo di Cassano erano state in seguito la benzina dei contestatori.
Sedici punti in dodici partite non sono bastati a farlo diventare fenomeno, la prima sconfitta a Marassi l’ha pagata col licenziamento imposto alla società dal popolo doriano (“non ci ha dato un gioco”, “solo palla lunga per Eder e Muriel”, “resti a Dubai”); popolo che probabilmente sopravvaluta la qualità della squadra. Ma ci può stare – una volgarità la querelle sul permesso “non concesso”.
A Iachini è successo il contrario. Amato e stimato dai tifosi del Palermo che gli hanno riconosciuto numerosi meriti (in primis l’esplosione di Dybala e il rilancio di Vàzquez), ha fatto i conti con la crisi d’astinenza di Zamparini – 53 teste tagliate in carriera – che fin dalle prime partite s’era stufato di lui: dopo ogni sconfitta si ipotizzava il suo licenziamento. E’ saltato dopo una vittoria (sul Chievo); la stessa cosa accadde anni fa a Simoni, esonerato da Moratti dopo un successo sulla Salernitana e con la panchina d’oro appena ricevuta a Coverciano nel bagagliaio dell’auto – quella stagione interista finì malissimo.
Nessuna sorpresa, dunque: il mestiere dell’allenatore è diventato molto complicato (pensate a come se la sta passando Allegri alla Juve nonostante scudetto, coppe e finale di Champions), quello del presidente eccentrico che crede di aver capito tutto del calcio, impossibile. Nessuno è più padrone dei propri destini e, aggiungo, della propria dignità.