Ora, io ammetto con qualche ora di ritardo, e mi scuso pubblicamente, che la spinta di Murillo a Cuadrado era da rigore (sulle prime sapeva troppo di compensazione per il rigorone non dato pochi minuti prima, e ci stava anche il rosso) ma i tanti juventini che da inizio settembre a metà ottobre dissero e scrissero che Allegri non era da Juve sia per i primi effetti del post-triotenori, sia per l’impiego a intermittenza di Dybala (erano i giorni in cui Zamparini tuonava dandogli del “rovina-Paulino”) dovrebbero fare altrettanto.
Tutti spariti? Tutti con Max forever and ever? Tutti “e chi l’ha mai criticato”? Non sono soltanto le 14 vittorie consecutive, tra campionato e coppa Italia, a imporre la retromarcia: è la sicurezza con cui la squadra, pur se più volte modificata, ha messo sotto la Lazio in coppa (in particolare nel secondo tempo), la Roma domenica (pur se tirando in portando soltanto tre volte) e l’Inter ieri sera, realmente annichilita.
Attraverso l’esperienza juventina (decisiva la cavalcata dello scorso anno in Champions che ha portato una straordinaria dose di autostima e altri crediti) Allegri è cresciuto e si è completato: da “tecnico bravo nel gestire il primo anno” si è trasformato in uno specialista (anche) della ricostruzione e della crescita dei giovani più talentuosi (Dybala, lo stesso Morata, Rugani). In altre parole Max è diventato l’elemento centrale di questa prova suprema. Oggi che non ci sono più i Pirlo, Vidal e Tevez a togliergli luce, contando sui “quattro dietro” (Buffon Barzagli, Bonucci e Chiellini), su Marchisio e molte idee, Allegri continua a presentare una Juve degna dei suoi titoli e del discutibile ma ormai radicato motto bonipertiano “vincere non è importante, è l’una cosa che conta”.
La Juve vince, e lui conta.